Gian Maria Tosatti / Testamento – Devozioni X

BY LAURA LOI MAGGIO 16, 2011 POST A COMMENT







Bisogna essere molto forti per amare la solitudine
bisogna avere buone gambe e una resistenza fuori dal comune
Versi del Testamento
, Pier Paolo Pasolini

Per introdurre Testamento – Devozioni X è necessario partire proprio dalla citazione di Pier Paolo Pasolini perché nel progetto di Gian Maria Tosatti un ruolo preminente lo giocano la solitudine e la resistenza. Devozioni X è un percorso proposto al visitatore all’interno di uno spazio totalmente isolato dall’esterno, alienato rispetto a quanto doveva essere al principio e che l’artista e il suo curatore, Alessandro Facente, hanno rivestito di un nuovo ruolo denso di altrettanti nuovi significati. La torretta idrica dell’ospedale San Camillo diviene una Babele in cui voci e suoni prodotti da diverse apparecchiature rimbombano nelle sale vuote e si fondono e confondono lo spettatore che si ritrova a vivere un’esperienza sensoriale destabilizzante; e ancora Babele richiama per il suo moto ascensionale – la mostra è dislocata su vari piani dell’edificio – e per le rampe di scale che seguono un ritmo vorticoso. I suoni sintetici, le voci, le melodie accompagnano il visitatore nel suo moto verticale fino all’ultima sala dell’edificio in cui viene a compiersi il momento catartico perseguito fin qui.

La solitudine è l’unica compagna di chi affronta questo percorso, ci si ritrova in queste vaste sale vuote che un tempo hanno osservato la vita trascorrere al loro interno, il tempo e l’abbandono hanno lasciato i loro segni sulle pareti, sui pavimenti. Le installazioni ideate da Tosatti non alterano la situazione di degrado che il contesto presenta ma vi si inseriscono armoniosamente andando ancor più a destabilizzare la percezione di isolamento che pian piano si posa sul visitatore. Una scala eretta nel centro di una stanza, bloccata a mezz’aria e che non porta ad una via di fuga ma la fa solo immaginare, una sedia che si regge su due delle sue gambe e che dunque non risponde più alla funzione per cui è stata creata e cioè quella di essere un sostegno, un punto di riposo per il visitatore che ha già percorso un tratto della salita, le finestre coperte per più della metà della loro altezza da cellophane che impedisce a colui che si trova nelle sale di guardare al di fuori di esse, venendo così a mancare il contatto con la realtà esterna all’edificio. Giunti alla fine del percorso si è colti da un immediato colpo d’occhio, la vista si apre ad un ambiente altissimo che si estende al di sopra di noi, che sembra non dover terminare mai tanto che da qui si dipana una nuova scala a chiocciola più stretta e più buia di quella che abbiamo da poco lasciato alle nostre spalle e che ci conduce alla stanza più importante dell’intera mostra. Qui ritroviamo la consapevolezza di quella realtà che a poco a poco avevamo abbandonato nelle sale ai piani inferiori e che adesso torna prepotentemente ai nostri occhi ma non per confortarci, per rassicurarci di non aver smarrito la ragione quanto piuttosto per ammonirci, per mostrarci la brevità e la nullità di secoli e secoli di civiltà quando di questa, ai nostri occhi, non resta che un panorama di agglomerati urbani deturpati dal cemento e dalla cappa grigia che aleggia minacciosa sui nostri cieli.

Bisogna sottolineare il carattere duale dell’intera costruzione della mostra. Nella sua prima parte c’è una chiusura parziale all’esterno, la luce penetra dalle finestre che seppur coperte ci lasciano intravedere porzioni di cielo, oltre ai suoni di apparecchi televisivi non più funzionanti si riconosce chiaramente la voce di un uomo, è Frank Lloyd Wright, che ripete costantemente una frase pronunciata qualche settimana prima di morire: “If I had another fifteen years of work, I could rebuild this entire country, I could change the nation”. Le scale che ci conducono verso l’alto sono spaziose e non ci costringono ad affrontarle velocemente pur di arrivare ad un luogo meno claustrofobico. Tutto questo non avviene nella seconda parte della mostra. Finite le voci, resta solo la musica in questa ultima sala che si espande verso il cielo. Qui le finestre sono altissime, totalmente ricoperte dal cellophane, ci negano la vista e si può dire che a questo punto della mostra il processo di straniamento è completo. La seconda scala è buia, costipata, senza aperture, l’unica luce si intravede in alto e la destinazione è ancora più sconosciuta di quanto non lo fosse nella prima parte. Giunti alla fine della scala ci si ritrova in una stanza che a differenza di quella lasciata alle nostre spalle ha un soffitto piuttosto basso ma con una caratteristica in più: non ha pareti e quindi si può espandere all’infinito in tutte le direzioni. Da questa altezza si può avere una visione della città diversa da quella che solitamente si ha dai più alti monumenti del centro storico di Roma. Da qui infatti si intravede l’E42, l’Eur con il Palazzo della Civiltà Italiana e la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo, costruzioni oramai storiche ma pur sempre simbolo di modernità, e al di là di esse quella che è stata la devastazione del quartiere effettuata con il cemento che ha permesso di costruire quei grattacieli che hanno privato per sempre l’Eur di un carattere metafisico quale in principio doveva avere. E da qui meglio ci si può ricollegare alle parole e al pensiero di Wright che ha cercato per tutta la sua vita di creare un equilibrio fra l’ambiente costruito e l’ambiente naturale, mentre a Roma è avvenuto l’esatto contrario, è stata applicata la logica della cementificazione selvaggia degli spazi che non solo non rispetta l’ambiente ma neanche l’uomo come essere vivente che vi dovrà abitare. E se la frase di Wright è quella di un essere che ha concluso il suo ciclo vitale ma che ancora vede lucidamente la catastrofe verso cui l’umanità si sta dirigendo, lo spettatore di Devozioni X ha un assaggio di quella che potrebbe essere la solitudine di una civiltà sull’orlo dell’estinzione.

Ancora un plauso va all’artista Tosatti e al curatore Facente per aver saputo non solo gestire una scenografia imponente come questa e plasmarla a loro piacimento, ma anche per essere bravissimi nell’introdurre alla mostra creando già prima di entrare una sensazione di ansietà al visitatore e richiudendo sapientemente la porta dietro di esso lasciandolo completamente solo.