gian maria tosatti. testamento – devozioni x
25.05.2011
Con l’intervento Testamento nella torretta-cisterna all’interno del complesso ospedaliero di San Camillo a Roma, Gian Maria Tosatti (Roma, 1980) adduce a definitivo compimento il ciclo Devozioni.
Nato nel 2005, il ciclo prevedeva dieci opere e, nel corso della sua completa attuazione, durata sei anni, ha attraversato diversi luoghi della capitale. Dalle prime installazioni, realizzate negli spazi dell’Angelo Mai (Le lait miraculeux de la Vierge – devozioni I, Magdalena – devozioni II, del 2005; Madonna con bambino – devozioni III, Litanies pour un retour – devozioni IV, Nella città di K – devozioni V, del 2006), ha coinvolto il Complesso Momumentale del Cimitero Verano (A coloro che mi attendono – devozioni VI, 2006), Villa Aldobrandini (Klaus – devozioni VII, 2006), via Panisperna 61 (Il sangue speso di tutte le mie stelle – devozioni VIII, 2007) e l’Idrovora della Centrale Montemartini (I giorni del silenzio – devozioni IX, 2008).
Dopo aver superato il cancello d’ingresso di via Bernardino Ramazzini del nosocomio, salita una scaletta di ferro e attraversato un incolto praticello, ci si trova davanti ad una imponente struttura alta circa 25 metri, di colore grigio che testimonia il suo glorioso passato. Costruito negli anni Venti, il grande portone verde, crivellato dalle diverse serrature che si sono succedute nel tempo, adesso serrato da un massiccio lucchetto Yale, segna l’accesso all’edificio che, fino a dieci anni fa, ospitava la casa del custode e la squadra di pronto intervento e di manutenzione della cisterna. Superato, quindi, il portone ci si trova di fronte una stretta scala e, a destra, in un’ampia sala. Con le lampade a neon senza vetro e le pareti scrostate, ci sono, in alto, due orologi neri, fermi alle 10.36. E già questo primo dettaglio ci fa presagire qualcosa. Si salgono i gradini della stretta scala, con i muri di colore giallo per metà e illuminata da finestre i cui infissi non trattengono più la pioggia, e l’acqua lascia le sue colature lungo i muri, come le scie di un muto pianto. Si giunge al primo piano. A sinistra una stanza, con due tavoli/ scrivanie, posti l’uno di fronte all’altro, con il piano sgombro da qualsiasi oggetto, ad eccezione di un vecchio televisore, la cui trasmissione è ormai terminata, e sullo schermo la tipica nebbia della mancanza di segnale; una piccola mensola con sopra una vetusta radio che trasmette, in loop, una vecchia canzone. Difficile identificarla, ma familiare. Si continua a salire, e si arriva al piano adibito a casa del custode. Al centro della prima stanza a sinistra, una scala, ritta, sospesa nel vuoto; a terra un altro televisore, anch’esso con la nebbia. Poi il bagno, la cucina, con le familiari mattonelle celesti e una radio che trasmette quella familiare canzone. Percorrendo il corridoio, si giunge a un’altra stanza, con la porta scardinata, poggiata a terra, e un termosifone spostato dalla parete. A fianco, una stanzetta, con piccole fotografie in bianco e nero. Infine una camera con una sedia cha sta per cadere e un giornale del 1999 bloccato sulla parete opposta, come se nel centro si fosse verificata un’esplosione; dei numeri di telefono scritti a matita sul muro e cancellati dal passaggio di un veloce dito. Si continua a salire e si arriva in un ambiente che ha completamente perso l’atmosfera domestica, acquisendo un aspetto più industriale: al centro quattro pilastri in cemento supportano una scala a chiocciola, circondati su tre lati da una sorta di ringhiera, con un tubo di rame, e un grande megafono. Si giunge così all’ultimo piano, quello delle cisterne, appunto. Conclusa la scala a chiocciola, ci si trova davanti ad una botola aperta, da cui si scorge l’acqua e una sedia sul fondo. Su un grande bancone, un apparato radiofonico, con un microfono, un equalizzatore e, al di sopra, una finestra che, come attraverso una fitta nebbia, mostra il panorama della silenziosa città. Ogni luogo, ogni dettaglio, costruisce quella strana sensazione di essere un sopravvissuto, di spiare un luogo che frettolosamente è stato abbandonato. Un luogo che fa sentire lo spettatore calato nel film La vita degli altri e dentro il romanzo 1984, in cui quella voce sconosciuta nomina il vincitore della lotteria.
Nella presentazione affermi che Devozioni è “l’attraversamento di uno spazio nel quale si proietta l’immagine del tempo attuale sull’espressione di un modello futuro e le basi di uno passato”: che intendi dire?
Questa installazione è una proiezione sul futuro, sulla fine dell’umanità, che si è autodistrutta. Ma è anche la fine della mitologia dell’uomo, verificatasi già dalla guerra fredda, quando si temeva la catastrofe finale e si costruirono dei luoghi in cui le persone si sarebbero potute rifugiare. Ho messo delle radio, perché la BBC ideò il progetto War Time Broadcasting Service: in caso di attacco nucleare, avrebbe trasmesso una play list ai superstiti. Tra cui We’ll Meet Again (1939) cantata da Vera Lynn, la stessa canzone con cui Stanley Kubrick conclude Il dottor Stranamore (1964). Ma l’umanità ce la farà a sopravvivere se continuerà a sfruttare il pianeta e a produrre delle energie altamente inquinanti, che fanno un milione di morti l’anno, deceduti per cause politiche? Ogni singolo individuo è trasceso nella possibilità di incidere sulla Storia. Si possono così fare delle proiezioni in avanti e può darsi che non ci sia una resurrezione. In questo spazio proiettato in avanti, s’inserisce la mia installazione. Una specie di tomba, una grande stele mortuaria, in cui tutto è sospeso. Lo spettatore è posto nell’opportunità di cogliere una visione in un momento in cui non è ancora giunto, teso tra passato, che ha generato questa proiezione, e futuro, in cui prenderà corpo.
Affermi che sei partito dalla valenza archetipa del Vangelo, in che senso?
Devozioni hanno tre obiettivi: indagare l’identità dell’uomo moderno occidentale, analizzarla da un punto di vista strutturale; analizzare la tensione tra anima e sangue e capire in negativo perché, se capisci cos’è l’uomo, capisci anche quello che l’uomo è. Che ha archetipi di riferimento nel Cristianesimo.
E il libro che ha determinato l’identità culturale occidentale è il Vangelo. Che intreccio con altre fonti letterarie (come Alice nel Paese delle meraviglie, I fratelli Karamàzov). Ma resurrezione che vuol dire? In Devozioni IX, immagino gli apostoli rimasti soli dopo che Gesù è andato via, come quando noi siamo lasciati da un maestro, dai genitori o dai nonni. M’interessa capire cosa succede quando ci troviamo in questa situazione di libertà, perché il destino è nelle proprie mani ma, allo stesso momento, c’è anche l’abbandono. Ci si ritrova come in una bolla, in cui il tempo trascorre, ma sei sospeso. È un momento cruciale in cui prende forma il proprio ruolo. Questo momento di cesura, l’ho legato a quanto è successo col nazismo, perché ha seppellito l’era moderna. E la necropoli, anche del Cristianesimo, è Auschwitz, che per noi è ancora vivo, perché si hanno contatti con le persone che lo hanno vissuto, ma le prossime generazioni vivranno solo la dimensione mitica. Dopo cosa è successo? I nazisti sono sconfitti, eppure l’Europa mette le radici su quella terra imbevuta di quella mitologia. Così ho analizzato il Vangelo e individuato dei momenti centrali per capire come s’intersecano con la storia.
La creazione di questi ambienti in cui sembra che qualcosa sia appena accaduto e che le persone abbiano improvvisamente lasciato tutto, è vicina a quella di Mike Nelson, non trovi?
Non lo so, ma in Devozioni c’è una dimensione narrativa forte, al presente e al passato, perché utilizzati i morfemi di una narrazione che puoi ricostruire in maniera molto libera, perché le tracce sono interpretate in modo individuale e personale. L’installazione non è risolta in se stessa, ma è costruita per essere qualcosa. L’opera è lo spettatore; io creo una specie di specchio in cui proiettare tutte le immagini del recondito, attratte in funzione di una direzione che ho dato.
Quindi, sin dall’inizio una progettualità che prevedeva da subito dieci opere?
Nel primo lavoro non c’era neanche il titolo e il numero. Ma, fatto il primo intervento e il secondo, mi sono posto delle domande su cosa andavo a fare. Così è nato il titolo e ho cominciato a dargli forma. Mi sono domandato: cosa analizzo?. I tre obiettivi sopra indicati. Così, ho preso il Vangelo e individuato dieci nodi.
E del Vangelo, hai analizzato un Evangelista in particolare?
No. Anche apocrifi. La storia di Gesù. Il Nuovo Testamento in generale. Non m’interessa se Gesù è esistito o no, m’importa la sua valenza mitica.
Adesso si è concluso il ciclo Devozioni?
Sì. Procedo con altre linee. Altre domande che affronto con altri cicli.